In seguito al ciclo di incontri che si sta tenendo ℅ il Centro Donna del Comune di Livorno, pubblico un articolo riassuntivo delle tematiche da me relazionate nel corso del primo incontro, dal titolo: “E quando arriva la diagnosi?”.
La famiglia si presenta come un sistema aperto che segue un modello retroattivo, capace di autoregolarsi e con tendenza all’omeostasi, per cui a ogni tentativo di cambiamento di stato nel sistema corrisponde la messa in moto di meccanismi di autoregolazione che tendono a riportare il sistema alla stabilità. L’evoluzione della famiglia è legata, quindi, alla modalità con cui affronta lo squilibrio prodotto da ciascun evento critico (Togliatti & Lavadera, 2002), facendo in modo che esso diventi una risorsa e non fonte di ulteriore crisi (di Nuovo & Buono, 2004).
Recentemente l’indagine sulle famiglie si è progressivamente ampliata ed oggi essa considera l’adattamento della famiglia nel suo insieme (ponendo attenzione anche alle reazioni psicologiche delle altre figure familiari come i padri, i fratelli e i nonni) e la relazione tra famiglia e rete sociale (Scarzello, 2002). L’interesse dei ricercatori si è spostato allo studio dei processi e delle risorse che favoriscono l’adattamento: l’ampiezza e il tipo di difficoltà che tale evento suscita sono strettamente connesse al significato ad esso attribuito dalla famiglia e alle risorse di cui la famiglia dispone (Valtolina, 2000).
Non è tanto l’evento in sé che viene qualificato come stressante, ma il modo in cui viene percepito è vissuto (valutazione cognitiva mediata dalle risorse di coping interne o esterne).
La nascita di un bambino con disabilità comporta per un gruppo familiare un processo di cambiamento/adattamento molto doloroso, un ripensarsi come famiglia, una riformulazione delle aspettative future, che richiede lo sviluppo di nuove strategie per fronteggiare la crisi, definire nuovi ruoli, ridistribuire le responsabilità nella prospettiva di prendersi cura della persona con disabilità ed affrontare e gestire i vissuti emotivi attivati dalla delusione che i genitori provano nel ritrovarsi con un figlio così diverso dall’immagine idealizzata che ne avevano, con un futuro così poco conciliabile con quello che si erano precedentemente rappresentati (McDaniel, Hepworth & Doherty,1992).
La situazione che i due genitori si ritrovano a vivere è considerata una vera e propria situazione di lutto: i due genitori dovranno elaborare il venir meno della rappresentazione del figlio che si immaginava sarebbe stato. Il crollo delle aspettative rappresenta, infatti, una vera e propria esperienza di perdita, paragonabile ad un lutto per quel bambino che non è nato (Greiner G., 2000).
In questa situazione ogni famiglia reagisce attivando le proprie risorse e facendo appello alla propria forza di adattamento, risorse che sono diverse da famiglia a famiglia e dipendono da vari aspetti (D. Ianes, F. Celi, S. Cramerotti, 2003):
– il livello di benessere legato alle risorse economiche della famiglia;
– il grado del deficit del figlio e la contemporanea presenza di patologie comportamentali;
– la disponibilità dei servizi socio-sanitari e l’accettazione di questi da parte della famiglia;
– la disponibilità di una rete informale di solidi rapporti sociali di supporto;
– il livello di comunicazione fra i membri della famiglia nucleare e con le famiglie di origine;
– il livello di rapporto fra coniugi sia in termini di visione comune, ma anche soprattutto in termini di presenza reale di entrambi;
– il livello di reale consapevolezza delle risorse e dei limiti sia del proprio figlio, sia della famiglia stessa.
La madre solitamente assume l’impegno assistenziale in senso totale (la rinuncia al lavoro è costante). Finché il bambino è piccolo le attività di cura sono vissute come reali e normali, in seguito interviene una presa di coscienza di anomalie fisiche, psichiche e comportamentali per cui i bisogni del figlio diventano l’esteriorizzazione del suo stato patologico e quindi di una situazione fortemente negativa: allo sviluppo fisico non segue quello della personalità e dell’autonomia. Questa constatazione rafforza e prolunga la fase della dipendenza del figlio, anche oltre i suoi bisogni oggettivi.
Il comportamento del padre può oscillare fra tentativi di “fuga” (soprattutto attraverso la ricerca di gratificazioni professionali), atteggiamenti di “rivendicazione” sociale e culturale o posizioni di passività e di distacco (“padre assente”).
Le comunicazioni fra i genitori sono soprattutto centrate sui problemi dell’handicap e si determina un’attenuazione o rimozione dell’affettività e della sessualità nella coppia.
La relazione dei genitori con il figlio disabile è caratterizzata da atteggiamenti di iperprotezione che impediscono lo sviluppo della personalità, delle capacità residue; talvolta si verificano invece fasi di ipervalutazione delle possibilità del figlio: “lui è intelligentissimo, potrebbe fare l’università, sono gli altri che non lo capiscono e lo rifiutano”.
L’adattamento comprende innanzitutto, la comprensione e l’accettazione della disabilità; richiede plasticità di pensiero e chiama in causa la volontà di farsi carico delle esigenze altrui, nel limite del possibile. Adattarsi significa imparare a comunicare e ad interagire anche secondo schemi non consueti; vuol dire avere dubbi, preoccupazioni o problemi, ma trovare la capacità di affrontarli e di attivarsi per trovare risorse e soluzioni.
Un adattamento positivo comporta la costruzione di un legame affettuoso ed empatico, il processo di adattamento è supportato dalla coesione e comprensione reciproca, come sostiene Levine (2002) “il più grande dono che i genitori possono dare ai loro figli è quello di capire i loro bisogni emotivi”.
Dott.ssa Moira Picchi