Durante questa estate ho letto un libro di cui vorrei provare a scrivere qualcosa: “Il Maschio Selvatico – La forza vitale dell’istinto maschile” di Claudio Risè, edito da San Paolo.
Chi è il maschio selvatico? Leonardo da Vinci diceva che “il salvadego è colui che si salva”. Grande conoscitore dell’uomo, della natura e dei boschi, Leonardo pensava che proprio il salvadego, l’uomo che conosceva la natura profonda, fosse il tipo umano capace di “salvarsi”, sia fisicamente che spiritualmente. L’uomo selvatico si segnala inoltre per un altro aspetto, certo sorprendente per la cultura di oggi, dove la salvezza viene sempre richiesta all’esterno, a Stati, ordini professionali, burocrazie, enti, cui si chiede appunto di occuparsi della “salvezza” delle persone, anche entrando in modo molto invadente nella loro vita (famigliare, sessuale, religiosa). Il salvadego, invece, l’uomo selvatico, “si salva” da solo (o almeno cerca di farlo). L’uomo selvatico è anche tante altre cose, è anche l’uomo che vuole essere se stesso, assumendosi ogni responsabilità derivante dal suo essere creatura, di genere maschile.
Sinceramente non mi sono trovato completamente in linea con quanto sostenuto dall’autore, forse non sono ancora del tutto pronto a comprenderne tutte le diverse sfaccettature proposte in questo libro.
Perché allora consigliare questa lettura?
Come direbbe Voltaire: “non credo in ciò che dici ma darei la vita perché tu lo possa esprimere”. Credo sia importante entrare comunque in contatto con idee diverse dalle proprie, al fine di poter ampliare la propria visione e mettere in discussione le propri idee e certezze, valorizzando quindi le differenze. Inoltre mi sento di consigliare tale lettura perché a mio avviso ci sono spunti importanti da cui muoversi per un percorso maschile sul nostro essere maschi nella società d’oggi.
“L’uomo di oggi infatti, il paziente dell’analista, non è solo il suddito, più o meno pacifico, degli stati protagonisti del processo di civilizzazione. L’impiegato dirigente di una multinazionale non è solo quell’uomo, visibile, la cui vita emozionale e corporea si esprime nei confini estremamente compressi delle buone maniere aziendali e familiari. Capire questi uomini significa percepire, in modo arcaico e immediato, i molteplici strati del loro inconscio, personale e collettivo. Significa cogliere e rianimare, nei materiali dell’inconscio che essi portano, tutta un’esperienza maschile che va dall’uomo del paleolitico, alle tribù migranti indoeuropee, al mondo medievale, fino a oggi. Ma ciò è possibile solo attraverso un’immedesimazione totale nell’altro, e in quell’altro inquietante, selvatico “troppo libero” come dice Elias, mondo maschile che è stato appunto invariabilmente rimosso dal trattamento delle buone maniere. Aiutate questi uomini a realizzare pienamente la propria identità maschile significa allora dare voce, attraverso l’espressione dell’inconsio e la sua progressiva integrazione, a tutto questo universo. […] E ritrovare insieme agli uomini ingessati dalle buone maniere quella forza primigenia che il maschio ha conosciuto nella sua storia, di cui conserva memoria e nostalgia nell’inconscio, e dal cui recupero dipendono la sua vitalità e sopravvivenza”.
Mi trovo molto in linea con quanto sostenuto qui da Risé, anche se credo importante che gli uomini si debbano mettere in discussione per consapevolizzarsi, in tal senso, della loro storia collettive e personale al fine di scegliere consapevolmente su che tipo di uomini vogliano essere oggi, nella nostra società odierna.