Introduzione
L’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che “la violenza comporta un’esperienza traumatica vissuta da oltre il 35% delle donne in tutto il mondo”. Complessivamente la violenza è una tra le maggiori cause di morte a livello mondiale per gli individui di età compresa tra 15 e 44 anni. Secondo l’Istat, il 32% delle donne fra i 16 e i 70 anni ha subito almeno una violenza fisica o sessuale nel corso della vita. Nel 2005, 124 donne sono state uccise dal coniuge, dall’ex coniuge, dal fidanzato o dall’ex fidanzato, una donna ogni tre giorni.
Il 14,3% delle donne italiane ha subito un’aggressione dal coniuge. Quindi il problema della violenza maschile sulle donne, in Italia, per il 14,3% dei casi ha origine in casa, in famiglia.
Secondo quanto riportato nel secondo Rapporto Eures (European Employment Services – Servizi Europei per l’impiego) sul femminicidio in Italia: il 2013 è stato l'”anno nero” per il femminicidio nel nostro Paese, 179 donne uccise, con un incremento del 14% rispetto al 2012. Sempre secondo il Rapporto, il 2013 ha presentato la più elevata percentuale di donne tra le vittime di omicidio mai registrata in Italia, pari al 35,7% delle vittime totali (179 sui 502): nel ’90, le donne uccise erano appena l’11,1% delle vittime totali. Sempre nel 2013, quasi il 70% dei femminicidi è avvenuto in famiglia, il 92,4% per mano di un uomo.
Una delle forme più comuni di violenza contro le donne è rappresentata da quella perpetrata dal marito o dal partner. Si tratta di una situazione decisamente contraria rispetto a quanto accade agli uomini, i quali solitamente sono attaccati da uno sconosciuto o da un conoscente piuttosto che da qualcuno che appartiene alla sfera delle relazioni più strette (Crowell, Burgess, 1996; Heise, Pitanguy, Germain, 1994; Koss, 2000). Il fatto che le donne siano spesso affettivamente coinvolte ed economicamente dipendenti da coloro che ne abusano presenta notevoli implicazioni sia per la dinamica dell’abuso sia per gli approcci nella gestione dello stesso.
La violenza da parte del partner si verifica in tutti i paesi, a prescindere dal gruppo sociale, economico, religioso o culturale. Sebbene le donne possano essere violente nelle relazioni con gli uomini, e la violenza si ritrovi talvolta nelle relazioni con partner dello stesso sesso, l’insopportabile carico della violenza all’interno della coppia è sostenuto dalle donne per mano degli uomini (Heise, Ellsberg, Gottemoeller, 1999).
I dati relativi a un ampio numero di paesi suggeriscono che la violenza del partner è alla base di un elevato numero di morti per omicidio tra le donne. Studi condotti in Australia, Canada, Israele, Sudafrica e Stati Uniti mostrano come il 40-70% delle donne vittime di omicidio sia stato ucciso dal marito o dal compagno, frequentemente nell’ambito di una relazione caratterizzata da abuso (Mouzos, 1999; Gilbert, 1996; Bailey et al., 1997). Ciò è in netto contrasto con la situazione degli uomini vittime di omicidio. Negli Stati Uniti, ad esempio, solo il 4% degli uomini assassinati tra il 1976 e il 1996 era stato ucciso da mogli, ex mogli o compagne (Fox, Zawitz, 1999). In Australia tra il 1989 e il 1996 la percentuale era dell’8,6% (Carcach, James, 1998).
Tutto questo ha dei riflessi non solo in termini di costi di vite e di conseguenze psicologiche sulle vittime/sopravvissute della violenza ma anche in termini economici. E’ difficile calcolare il prezzo della violenza ma le evidenze disponibili mostrano che chi ha subito una violenza domestica o sessuale nel corso della propria vita va incontro a un maggior numero di problemi di salute, a spese decisamente più elevate per l’assistenza sanitaria e a visite più frequenti ai reparti di pronto soccorso rispetto agli individui senza una storia di abuso, questi costi rappresentano una parte importante della spesa sanitaria annua (Pederson, Skrondal, 1996, Holmes et al., 1996, Kakar et al., 1996, Toole, 1997).
Il delicato tema della violenza è sicuramente un problema complesso legato a modalità di pensiero e di comportamenti definite da una molteplicità di forze che si sviluppano e manifestano molto spesso all’interno delle nostre famiglie.
Definire la violenza
L’OMS definisce la violenza come: “l’utilizzo intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un elevato grado di probabilità di determinare lesioni, morte, danno psicologico, cattivo sviluppo o privazione” (WHO, 1996).
Da quanto riportato si evince una distinzione tra atti intenzionali e non intenzionali che determinano lesioni, però la presenza dell’intenzione di ricorrere alla forza non significa necessariamente che esista anche l’intenzione di causare un danno, è quindi possibile che esista una notevole disparità tra un comportamento voluto e una conseguenza voluta. È possibile che un individuo ma più nello specifico un uomo, possa compiere intenzionalmente un atto che, in base a parametri obiettivi, viene considerato pericoloso e con notevoli probabilità di determinare delle conseguenze sanitarie negative, ma che l’uomo non lo percepisca come tale.
Secondo Walters e Parke (1964), la violenza viene determinata culturalmente, alcune persone hanno l’intenzione di danneggiare altri ma, a causa della loro storia e dei loro valori culturali, non percepiscono i propri atti come violenti, come ad esempio il picchiare la moglie, possono essere ritenuti da alcuni una pratica culturalmente accettabile, ma sono considerati atti violenti con gravi implicazioni di salute per l’individuo.
Le organizzazioni femminili in tutto il mondo hanno concentrato a lungo l’attenzione sulla violenza contro le donne e in particolare all’interno della coppia. Grazie ai loro sforzi, la violenza contro le donne è divenuta un problema d’interesse internazionale. Inizialmente vissuta come una questione di diritti umani, la violenza nella coppia è sempre più frequentemente considerata un problema di salute pubblica.
Per violenza contro il (ma molto spesso), la partner s’intende un qualsiasi comportamento all’interno della relazione di coppia che provochi un danno fisico, psicologico, sessuale, economico ai soggetti della relazione o a terzi, come la prole. Tali atti di violenza che si consumano in gran parte tra membri della famiglia e/o tra partner e possono essere così definiti:
- Violenza Fisica
- Violenza Psicologica
- Violenza Sessuale
- Violenza Economica
- Violenza Assistita
La maggior parte delle donne oggetto di aggressione fisica solitamente è vittima di diversi episodi di aggressione nel tempo, solitamente nella stessa relazione coesistono diversi tipi di abuso. Quando l’abuso viene ripetutamente perpetrato nell’ambito della stessa relazione, si parla spesso di “maltrattamento” (Koss et al., 2000, Ellsberg et al., 2000, Leibrich, Paulin, Ransom, 1995).
I programmi di fuoriuscita dai comportamenti violenti per i responsabili rappresentano un’innovazione che si è diffusa dagli Stati Uniti all’Europa (Corsi, 1999; Cervantes Islas, 1999; Axelson, 1997). La maggior parte di questi programmi utilizza una struttura di gruppo per discutere i ruoli legati al genere e insegnare abilità, tra cui la capacità di gestire la tensione e la rabbia, assumere la responsabilità delle proprie azioni e manifestare i propri sentimenti agli altri. Ricerche condotte negli Stati Uniti indicano che la maggioranza degli uomini (53-85%) che completano il programma di trattamento si mantiene fisicamente non violenta per un periodo che raggiunge i due anni, con percentuali più contenute per periodi di follow-up più prolungati (Edleson, 1995; Gondolf 1999).
Una recente valutazione dei programmi condotti in quattro città degli Stati Uniti ha osservato come la maggior parte delle donne vittime di violenza si sentisse “meglio” e “più sicura” dopo che il partner aveva iniziato un trattamento.
Secondo una recente indagine internazionale condotta da ricercatori dell’Università di North London, Gran Bretagna (Mullender, Burton, 2000), globalmente le valutazioni suggeriscono come i programmi di trattamento operino nel modo migliore quando:
- proseguono per periodi più lunghi piuttosto che più brevi;
- modificano gli atteggiamenti degli uomini in modo tale da farli discutere del proprio comportamento;
- sostengono la partecipazione al programma;
- operano parallelamente al sistema giudiziario che agisce in modo severo quando si creano incrinature nelle condizioni del programma.
Il concetto tradizionale di onore maschile
Nelle società più tradizionali, picchiare la moglie è ampiamente considerato una conseguenza del diritto dell’uomo di ricorrere a punizioni fisiche nei confronti della moglie – un fatto evidenziato da studi condotti in paesi diversi quali Bangladesh, Cambogia, India, Messico, Nigeria, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Repubblica Unita di Tanzania e Zimbabwe (Schuler, 1996; Zimmerman, 1995; Michau, 1998; Armstrong, 1998; Gonzalez Montes, 1998; Osakue, 1998; Hassan, 1995; Bradley, 1985; Jejeebhoy, 1998). Le giustificazioni culturali della violenza solitamente derivano da una visione tradizionale dei ruoli specifici di genere. In diversi contesti si ritiene che le donne debbano occuparsi della casa e dei figli e mostrare al marito obbedienza e rispetto. Se un uomo ritiene che la propria moglie non abbia adempiuto ai propri doveri o ne abbia superato i limiti – magari semplicemente richiedendo denaro per la gestione familiare o sottolineando le necessità dei figli – è possibile che risponda ricorrendo alla violenza. Come sottolineato dall’autore dello studio relativo al Pakistan: “Picchiare la moglie per castigarla o controllarla è considerato un fatto giustificato dal punto di vista culturale e religioso… Poiché l’uomo è considerato il ‘padrone’ della moglie, è necessario che essa capisca chi è il capo, così da scoraggiare trasgressioni future”.
Violenza assistita
Le società, così come la nostra cultura d’appartenenza, spesso distingue tra ragioni “giuste” e “ingiuste” per ricorrere all’abuso e tra livelli di violenza “accettabili” e “non accettabili” (Schuler, 1996; Gonzalez, 1998; Heise 1998). In questo modo, viene dato il diritto (nel caso specifico della violenza domestica, spesso agli uomini) di punire fisicamente una donna, per alcuni tipi di trasgressioni, facendo quindi sentire gli uomini legittimati nel compiere certi comportamenti a discapito delle donne. Ma cosa rende possibile il manifestarsi della violenza all’interno delle mura domestiche?
- Norme culturali che avallano la violenza come metodo accettabile per risolvere i conflitti;
- norme che danno priorità ai diritti dei genitori rispetto al benessere dei bambini;
- norme che accentuano il potere degli uomini sulle donne e la prole.
Tutto questo si traduce quindi in una legittimazione e quindi un potere ad agire e perpetrare la violenza, che in questo caso definirei come “normativa”, o “giusta”, da parte di chi mette in atto comportamenti violenti e non solo a discapito delle donne ma anche a discapito della prole, sia assistendo a episodi violenti sia subendo direttamente gli effetti dei comportamenti violenti.
A tal proposito la psicoanalista polacca Alice Miller (1985), autrice di diversi libri, tra cui quello a me più caro: “Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero Sé”, parla della “pedagogia nera”: con tale termine intende un atteggiamento da parte di un adulto, adulta, che pretende di insegnare al bambino, alla bambina, la morale, la correttezza e la sincerità, credendosi autorizzato, autorizzata a ricorrere, per ottenere il suo scopo, a punizioni corporali, menzogne, inganni, manipolazione e così via. La pedagogia nera è spesso il mascheramento dell’abuso di potere che l’adulto, l’adulta, compie su bambini, bambine, un tipo di abuso pienamente legalizzato, e comunemente chiamato “educazione”.
Non è facile per un bambino, una bambina mettere in discussione i propri genitori e il loro operato educativo, più facile è pensare che siano i genitori ad aver ragione, lasciando spazio a interrogativi sulle proprie colpe: il bambino, la bambina che cerca di capire la ragione del comportamento del proprio genitore, lascia il posto a un adulto, a una adulta, che ha rimosso i sentimenti infantili, ma si porta dentro il peso di quel senso di colpevolezza, di quel trattamento sadico e ingiusto, di quella mancanza d’amore che ha ricevuto.
Banalmente, se ci soffermiamo a pensare: perché un educatore, una educatrice, – persone altamente formate, a porsi in relazione con gli educandi – non si sognerebbero mai di punire fisicamente una persona e invece, al contrario, un genitore (persona spesso non formata a fare il genitore) si sente legittimato, legittimata, a ricorrere a punizioni fisiche nei confronti della propria prole e non solo?
Si tratta in realtà dell’incapacità genitoriale di porsi in relazione con la prole in modo non violento e sincero, non consapevoli delle conseguenze del loro agire, credendo erroneamente che per ottenere rispetto dai figli, dalle figlie, si debbano usare metodi non adeguati anche come quelli violenti.
Mi ricordo che quando ero piccolo, i miei genitori non mi permettevano di guardare certi canali televisivi o certi programmi perché non ritenuti educativi e/o adatti alla mia età. Oggi i genitori possono applicare dei filtri alla televisione così come a pc, tablet, smartphone, ma chi mette i “filtri” o toglie i bambini, le bambine dal vedere, dall’assistere a certe scene di violenza domestica, che spesso vengono messe in atto da coloro che rappresentano le loro maggiori e importanti figure di riferimento? Tutto questo che riflesso ha?
Tutti questi comportamenti non consapevoli, vengono quindi appresi e quindi tramandati! Le nuove generazioni apprendono i comportamenti violenti dalla generazione precedente, le vittime imparano dai loro carnefici e le condizioni sociali che alimentano la violenza vengono lasciate proliferare.
I bambini, le bambine vedono, i bambini, le bambine fanno! La violenza viene appresa spesso fin da piccoli, piccole, in quei luoghi in cui dovrebbero essere maggiormente tutelati, tutelate, in casa.
Cosa si può fare?
A seguito dei movimenti femminili della fine degli anni sessanta del novecento si è andata affermando una nuova soggettività femminile che ha radicalmente cambiato il mondo. Sono mutate le nostre vite, il lavoro, le relazioni familiari, l’amicizia e l’amore, il rapporto con la prole, le consuetudini ed i modi di “sentire”. Dunque, si è ridefinita la figura e il ruolo della donna nella società. In tutto questo processo l’uomo cosa ha fatto?
Purtroppo, ci sembra che buona parte del maschile non abbia ancora preso atto della trasformazione della società e delle nuove relazioni tra generi, rimanendo ancorato alle rassicuranti tradizioni patriarcali, senza porsi nessun interrogativo sulla propria identità.
Oggi è necessario un salto di qualità, una presa di coscienza collettiva, nella quale il maschile faccia la propria parte, riconoscendo l’importanza di un impegno attivo per il cambiamento, partendo da sé, per inventare nuove modalità relazionali tra uomini e donne nella vita quotidiana.
Il fatto che il maschile, nei secoli, non si sia dovuto porre il problema di conquistare diritti e opportunità – presupponendo che questi fossero naturalmente conferiti dal proprio status – ha prodotto l’effetto della mancata messa in discussione di sé stesso.
Partiamo da noi e parliamo di noi! La realtà Associativa LUI nasce nel 2011 da una serie di scambi tra due giovani uomini livornesi, Gabriele e Jacopo. Da semplici conversazioni tra amici sull’essere maschi nella società, è nato l’interesse, la curiosità, la necessità del confronto con altri uomini e donne.
Attraverso la conoscenza dell’Associazione Ippogrifo, che è Centro Antiviolenza e Responsabile del Centro Donna del Comune di Livorno, la nostra “visione” sul maschile ha iniziato a prendere forma e consistenza, attraverso scambio di letture, esperienze, in relazione alle pari opportunità ed al linguaggio di genere: da una “costola del Centro Donna” nasce quindi l’Associazione LUI.
LUI propone un’idea di cambiamento, un’opportunità per tutte le persone (di diverso orientamento politico, religioso, sessuale) che desiderino confrontarsi sul significato di essere maschi consapevoli e responsabili. Insieme, si cerca di abbattere i modelli stereotipati di mascolinità provenienti da culture e linguaggi generati dal patriarcato, prendendo una posizione netta contro la violenza maschile sulle donne, riflettendo peraltro sulle nuove problematiche sociali degli uomini.
Non ci sono “verità in tasca” e neanche “pozioni magiche”, c’è solo il desiderio di (ri)conoscere le nostre emozioni di uomini, dandogli finalmente voce, sia a livello personale, che a livello politico.
Oggi, nel “tempo della separazione tra soggetti”, è fondamentale avere un luogo dove “far gruppo”, in cui (so)stare con altre persone di fronte alle emozioni, alle esperienze della vita, per farne patrimonio comune.
L’Associazione LUI, fin dalla sua fondazione, ha riconosciuto il grande valore dello stare insieme, contrastando “l’individualismo reticolare”, dando vita al Gruppo di Condivisione: “L.U.I. – Livorno Uomini Insieme”. La condivisione è collaborare per un obiettivo comune, un essere d’accordo o in disaccordo su temi “caldi”, un’esperienza che comunque avvicina. Il Gruppo dà vita a qualcosa che è più della somma dei singoli individui, perché, la coscienza di ciò che siamo e di ciò che valiamo, è legata alla nostra appartenenza all’insieme, che viene poi riportata nelle singole vite private.
La scelta di (so)stare insieme in forma collettiva ha il senso di un’assunzione di impegno ed un’opportunità per aprire uno spazio di libertà nel nostro dirci uomini, per una “responsabilità di genere”.
Ci sono uomini, nella cosiddetta “terra di mezzo”, che non si riconoscono più nei vecchi modelli maschili, ma che non si sentono ancora abbastanza pronti per dare vita al cambiamento, anche condividendo le emozioni in un contesto collettivo (specie se tra appartenenti al medesimo genere). Per questi è stato istituito uno sportello di ascolto telefonico (ChiAma LUI, ndr), una voce amica, disposta ad accogliere i bisogni; un ascolto attivo per fornire orientamento o anche solo per offrire una “spalla” su cui appoggiarsi, per poi ripartire, affrontando nuovamente le difficoltà della vita.
Durante la pratica di autocoscienza intrapresa da LUI in questi anni non si è potuto fare a meno di constatare il grande ruolo che riveste la violenza nell’agire maschile all’interno delle relazioni. Non c’è un “nemico oscuro”, estraneo alla nostra società, che agisce violenza di genere: il problema è all’interno delle nostre case, nelle nostre famiglie, nelle relazioni e nell’immaginario sessuale che abbiamo costruito, anche attraverso i media.
L’autore di violenza di genere spesso è un marito, un compagno, un fidanzato, un “ex”, un amico di famiglia, un datore di lavoro, una persona molto vicino alla vittima, di cui la vittima si fida: stiamo parlando quindi di uomini.
Strada facendo ci siamo resi conto che le nostre competenze professionali di partenza, di legale e psicoterapeuta – se messe a sistema e implementate – potevano divenire una risorsa nella gestione degli autori di comportamenti violenti, per approcciare il problema a 360°.
Per questo, una delle attività in cui attualmente l’Associazione LUI sta investendo maggiormente le proprie energie è la gestione ed il re-inserimento nella società degli autori di comportamenti violenti (spesso uomini). E’ fondamentale che chi entra in contatto con queste persone, abbiano una formazione continuativa e parallela: da una parte c’è bisogno di una preliminare e approfondita messa in discussione dell’essere maschi nella società d’oggi, dall’altra è altrettanto importante l’acquisizione di competenze tecniche specifiche per favorire il cambiamento. E’ altresì necessario costruire una Rete di interscambio con le Istituzioni pubbliche che inviano i soggetti autori di violenza agli Enti che, come il nostro, offrono ascolto della domanda ed un percorso che ricomprende l’adozione di strumenti tecnici specifici: nel caso di specie a Livorno abbiamo costituito una “relazione virtuosa” con gli Enti pubblici facenti parte della Rete Antiviolenza Città di Livorno (Comune di Livorno, Questura, Arma dei Carabinieri, Azienda USL 6, Ippogrifo – Centro Antiviolenza), affinché possa esserci un presa in carico completa dell’autore di comportamenti violenti, comprensivo di adeguato follow up.
Questa è la nostra visione, questa è la nostra peculiarità e forza a livello locale e non solo. Questa è la nostra esperienza personale e sul campo. Un approccio interdisciplinare, empatico, professionale, che garantisca qualità.
Il cambiamento si ottiene soltanto favorendo l’introduzione di un punto di vista alternativo sui paradigmi culturali e sul significato stesso del termine violenza. Gli autori di comportamenti violenti spesso hanno una visione del mondo negativa e autocentrata: essi si sentono come vittime di una moltitudine di persone e circostanze. L’intraprendere un percorso di “paradigm shift” da parte di questi uomini, può offrire loro “uno sguardo” sulla possibilità di mettere in atto una scelta differente rispetto alle loro consuetudini comportamentali.
In un percorso verso il cambiamento dai comportamenti violenti, è importante che i partecipanti si spostino da una prospettiva autocentrata di vittima ad una prospettiva di responsabilità attiva. Questa variazione di prospettiva genera come primo risultato concreto il “senso di responsabilità” verso gli agiti violenti commessi. Questo è solo il primo passo.
La strada per un maschile consapevole e responsabile verso i propri comportamenti appare impervia e in salita ma pur sempre percorribile. Da parte nostra, con l’Associazione LUI, stiamo provando, con umiltà, ad avviare un possibile cambiamento, perché siamo dell’idea che il mondo non sia pericoloso a causa di chi fa il male, ma a causa di chi guarda e lascia fare.
In conclusione quello che mi piacerebbe diffondere attraverso un “virus relazionale” tra le persone è una semplice domanda: “sei un VERO UOMO o un UOMO VERO?” Per me un uomo vero è colui in grado di non rinunciare alla verità del proprio essere, più profondo, alla continua ricerca della sua verità personale sulla sua idea di essere maschio nella società d’oggi.
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